La dipendenza amorosa e perdita di sé nella relazione è una condizione complessa e spesso silenziosa, che attraversa molte storie affettive senza essere nominata. È quel modo di amare in cui la presenza dell’altro diventa essenziale al punto da perdere contatto con se stessi.
Una lettura illuminante della psicoanalista Marina Valcarenghi mi ha portata a riflettere su quanto la ricerca di un legame stabile possa trasformarsi, inconsapevolmente, in una rinuncia alla propria identità. Da quella riflessione nasce il desiderio di approfondire questo tema clinico, che riguarda uomini e donne in egual misura.
Amare o dipendere
Amare significa condividere la propria vita con qualcuno, mantenendo la libertà di essere se stessi. Dipendere, invece, significa esistere attraverso l’altro, adattarsi alle sue aspettative per sentirsi al sicuro.
In questo tipo di legame l’amore smette di essere incontro e diventa garanzia: l’altro non è più un compagno, ma il custode del nostro equilibrio interiore.
Si rinuncia gradualmente alle proprie opinioni, si smorzano i desideri, si evitano i conflitti per paura di essere respinti. La relazione diventa così un sistema di regolazione affettiva, in cui la persona preferisce perdere se stessa piuttosto che rischiare di perdere l’altro.
La fusione come illusione di sicurezza
Alla base della dipendenza affettiva c’è il desiderio di fusione: l’illusione di diventare “uno solo” con chi si ama.
All’inizio questa unione totale può dare sollievo, perché annulla il senso di precarietà e la paura della separazione. Ma con il tempo, la fusione diventa una prigione: non esistono più due soggetti che si scelgono, bensì una sola entità che non sa più distinguere dove finisce l’uno e comincia l’altro.
Quando la distanza psicologica scompare, anche l’amore si impoverisce. La relazione perde la vitalità che nasce dalla differenza e si trasforma in un legame statico, fondato sul bisogno più che sul desiderio.
L’amore come garanzia di esistenza
Chi vive in una posizione di dipendenza non cerca solo affetto, ma una conferma ontologica: ha bisogno dell’altro per sentirsi vivo, riconosciuto, legittimato a esistere.
Questo meccanismo non è segno di debolezza, ma il risultato di un funzionamento psichico in cui la sicurezza interna è affidata a una fonte esterna.
Quando l’altro si allontana, anche momentaneamente, emergono vuoto, ansia e paura. L’assenza non viene vissuta come distanza naturale, ma come crollo della propria continuità interna.
La dipendenza amorosa e perdita di sé nella relazione rappresentano così una difesa contro l’angoscia di separazione: una strategia per non sentire la solitudine e per non confrontarsi con l’incertezza di bastarsi.
Una traccia culturale profonda
La tendenza a vivere in funzione dell’altro non nasce nel presente.
È un’eredità culturale radicata in secoli di modelli relazionali fondati sulla subordinazione affettiva: uomini educati all’autonomia e al potere, donne alla dedizione e alla cura, figli abituati a essere valutati in base alla conformità alle aspettative familiari.
Anche se oggi questi ruoli sono mutati, il loro riflesso psichico continua a influenzare il modo in cui molte persone vivono l’amore.
Si confonde la dedizione con la prova di fedeltà, la rinuncia con la profondità del sentimento. Si pensa che l’amore “vero” debba significare perdersi nell’altro, quando in realtà nessun legame può essere sano se comporta la cancellazione di sé.
Il modello originario del legame
Il primo modello di dipendenza nasce nella relazione con la madre, luogo di fusione e protezione assoluta.
In quell’esperienza primaria, il bambino non percepisce ancora confini tra sé e l’altro: sente di essere tutt’uno con la figura che lo nutre e lo accudisce.
La crescita comporta la necessità di separarsi, di riconoscersi come individuo distinto, capace di esistere anche quando la madre non è presente.
Quando questo passaggio è ostacolato — da un’eccessiva invasività o da un abbandono precoce — può restare dentro di noi la nostalgia di quella completezza perduta.
Da adulti, si tende allora a riprodurre lo stesso schema nella coppia: si cerca una fusione che rassicuri e si vive la distanza come minaccia di annientamento.
Segnali clinici della dipendenza
Le persone che vivono relazioni di dipendenza raramente riconoscono di esserlo.
Arrivano in terapia per motivi apparentemente diversi: ansia, insonnia, disturbi alimentari, depressione, o un generico senso di vuoto.
Solo nel corso del lavoro psicologico emerge che il nucleo del disagio risiede nella difficoltà di restare in contatto con se stessi quando l’altro si allontana.
Il bisogno di controllo, la gelosia, la paura di essere abbandonati sono espressioni di una fragilità più profonda: la convinzione inconscia di non poter esistere senza uno sguardo che ci contenga.
In questi casi, la relazione assume una funzione di sostegno narcisistico: l’altro diventa il contenitore delle nostre parti insicure.
Una difesa che diventa prigione
La dipendenza affettiva può essere compresa come una difesa dall’angoscia di separazione.
Funziona per un certo tempo, perché dà la sensazione di essere protetti. Ma il prezzo è la perdita di autenticità.
L’amore diventa un contratto tacito fondato sulla paura: “Io mi adatto, tu non mi lasci”.
Questa forma di adattamento, trasmessa e rinforzata nel tempo, produce un senso di impotenza e di immobilità.
Anche quando la persona riconosce di non essere felice, teme che spezzare il legame significhi perdere se stessa.
Meglio restare in una relazione che soffoca, piuttosto che affrontare il vuoto dell’indipendenza.
Dalla dipendenza alla libertà interiore
Uscire da una dinamica di dipendenza non significa allontanarsi dall’altro, ma riappropriarsi della propria soggettività.
Il percorso terapeutico aiuta a comprendere le origini di questo funzionamento e a costruire un nuovo equilibrio interno, in cui la relazione non sia più l’unico sostegno dell’identità.
Si lavora sulla capacità di tollerare la distanza, di riconoscere i propri bisogni e di scegliere senza paura.
La libertà emotiva non è freddezza, ma la possibilità di amare da un luogo intero, in cui l’altro non sia garanzia di esistenza ma compagno di vita.
Solo da questa posizione l’amore diventa incontro e non fusione, presenza e non dipendenza, scelta e non necessità.
Riconoscere la dipendenza amorosa e perdita di sé nella relazione non significa giudicarsi, ma iniziare a comprendere il proprio modo di stare nei legami.
Se senti che, in un rapporto, ti è difficile restare te stesso senza perdere l’altro, parlarne insieme può essere un primo passo per ritrovare equilibrio e libertà interiore.
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